PREMESSA STORICA

Sono trascorsi trentasette anni dal primo approdo di Andreas Giannakoulas a San Lorenzo, il movimentato quartiere di Roma, dove si trova la: “Neuro Infantile”. Così la facoltà era chiamata un tempo, molto familiarmente, da… tutti noi.

Noi incontrammo Andreas Giannakoulas – Tavistock Clinik di Londra – che eravamo ragazzi “anni settanta”, laureati con lode e ansiosi di incidere nel mondo. Eravamo, forse, dei privilegiati, come scriveva Pasolini (1968) nella sua nota difesa dei giovani appena maggiorenni, che facevano i poliziotti per lavoro. Poi anche lui, come altri prima, fu ucciso. Fu ucciso impietosamente, quella brutta notte del giorno dei morti, in un assurdo novembre che pareva primavera.

In un paese sconvolto dal terrore politico, noi, giovani privilegiati – anche dotati di requisiti, forse -, inseguendo ideali di un mondo migliore che ci pareva di vedere in una certa sinistra, facevamo la nostra rivoluzione in maniera non cruenta. Quella protesta silente e operativa si realizzava nel contesto accademico e ospedaliero di Via dei Sabelli, che dal ristagno culturale di una psichiatria baronale e arretrata, rinasceva proprio allora come luogo vitale di scienza.

La rinascita era dovuta all’impegno imprenditoriale del Neuropsichiatra Infantile più noto d’Italia, Giovanni Bollea, che da sottile cacciatore di talenti invitava nel suo Istituto nomi di spicco internazionale per promuovere un movimento scientifico che puntava all’eccellenza.

Nello stesso luogo, Neuro Infantile, tra ricerca scientifica, riunioni teoriche, e sacrificali esperienze cliniche, un grande uomo, lo psicoanalista Adriano Giannotti, ribaltò l’inerzia romana nella psicologia infantile, osando nuove frontiere. Usava la psicoanalisi intensiva per casi clinici inguaribili, allora ancora considerati di esclusività psichiatrica. Erano gravi patologie di bambini, di adolescenti e di infelici genitori, proposte in trattamento clinico al suo gruppo scelto di allievi che seguiva di persona, riuscendo a corredare di ricchezza clinica e di successi inesplorati prima di allora, la sua nuova, emergente Sezione di Psicoterapia Psicoanalitica dell’Età Evolutiva.

Era il 1975, il cuore dei cosiddetti Anni di piombo. Andreas Giannakoulas, da allora, restò con noi, sempre in volo tra Roma e Londra, oltrepassando con ieratica disinvoltura quanto di inquietante accadeva in Italia, e sempre centrato nel compito a lui richiesto.

Grazie ad un carisma didattico che incantava, – e che incanta – , grazie ai prestigiosi legami Psi di stampo anglosassone, grazie alla sua disponibilità trasmissiva inesauribile, con Andreas Giannakoulas partì, a San Lorenzo, il Primo Corso di Specializzazione di lingua italiana concepito secondo il modello Tavistock, dove si realizzava la trasmissione di un sapere psicoanalitico sulla psicoterapia dell’età evolutiva, che collocò Roma a livello di rilievo scientifico internazionale.

Quel tempo è passato. Arriviamo adesso ai giorni nostri, in cui costumi e fatti sono altri da allora. Le scuole di specializzazione, intanto, sono sostanzialmente inflazionate. Alla metà di gennaio di quest’anno, 2012, ci ritroviamo ancora a San Lorenzo: stesso luogo, stessa aula, ma un conturbante mix di nuove facce giovani e vecchie facce di allora, tra le quali risaltavano anche ingiusti vuoti e dolorose assenze.

Andreas Giannakoulas, ancora una volta seduto al posto d’onore, era iconicamente eguale a se stesso, in apparenza, ma emozionato come mai nell’impegno di presentare – nel vecchio Istituto di Via dei Sabelli, come se il tempo non fosse mai passato -, il suo più recente e meditato scritto, che riassume, dopo una rivisitazione teorica infinita, durata decenni, i riferimenti culturali che lui ha voluto per sé come cardini espressivi, distintivi, della sua più genuina identità professionale.

Tanto amorevole e lungo impegno ci consegna, alla fine, un testo da non perdere.

L’OPERA

La Tradizione Psicoanalitica Britannica Indipendente, titolo speciale, è presto dipanato dalla citazione di Winnicott, psicoanalista, pensatore e scrittore, indiscutibilmente britannico e indiscutibilmente indipendente: «Non è possibile essere originale tranne che sulla base della tradizione» (p.53) A questa affermazione succede l’altra tratta da Eliot (1964), poeta amato sia da Winnicott sia da Bion, e costantemente presente nell’ispirazione più intima del lavoro di Giannakoulas: «Ho già detto che l’esperienza passata, rivissuta nel significato, non è l’esperienza di una vita sola ma di molte generazioni – senza dimenticare qualcosa che probabilmente è del tutto inesprimibile» (p. 23).

Questo in sintesi, il registro del lavoro, un registro del tutto proprio di Giannakoulas, che è presentato come Indipendent Mind da Max Hernàndez, – suo amico a noi familiare per la frequente e stimolante presenza alla Neuro Infantile – , il quale propone un profilo riportato qui di seguito: «I suoi contributi e la sua creatività sono espressione di un personalissimo riferimento interiore dove la solitudine e la capacità di preoccuparsi sono il frutto di una vasta esperienza culturale; la capacity to bee alone» (p. 12).

Il registro di cui parla Hernandez, esistenziale e fondamentalmente etico a mio parere, il winnicottiano saper essere soli in presenza degli altri trasposto anche in ambito scientifico, traspare in tutta l’opera che procede stilisticamente non erigendosi come una serrata impalcatura architettonica, ma scorrendo direi orizzontalmente, in modo molto simile alla formula narrativa del romanzo Le Onde di Woolf (1931). Il testo, vale a dire, si dispiega nella lettura secondo un movimento storico e riflessivo dal ritmo ciclico, ricorrente, denso di pensieri psicoanalitici che si inseguono, si collegano e si sovrappongono. E in questa particolare forma di scrittura, nonostante la formale scansione in nove capitoli, – molti dei quali con un titolo meditato sino a tradire un humus arcaico, da Oracolo di Delfi -, tutto si dipana armoniosamente e progressivamente, via via sempre più estesamente, per raggiungere, alla conclusione, l’evocazione di quell’Inesprimibile che si dona naturalmente alla mente del lettore senza mai forzarla. Questo inesprimibile, già in principio, era stato annunciato dalla parola poetica di Eliot.

Il libro, si intende, è dedicato all’Olimpo di figure mitologiche che hanno animato il mondo della psicoanalisi anglosassone anni trenta-ottanta – e l’essere indipendenti nella tradizione britannica – figure che hanno segnato inconfondibilmente la formazione psicoanalitica di Giannakoulas e di conseguenza anche la nostra, più eclettica, di allievi.

Di piccolo formato, il libro propone la copertina con foto in bianco e nero, scattata da una fotografa “ambulante”, Niki Tipaldoi, che ritrae una giovane madre etnica. La donna, forte di una dignità arcaica, è esile e scalza, ma sta comunque “col suo piede ben piantato in terra”. Da un lato essa armeggia con un bastone nella brace, mentre dall’altro, attraverso una disinvolta torsione del busto, protegge dal fumo il suo bambino, che è seduto solidamente sul fianco della madre, ed è da lei sostenuto con il braccio sinistro, dalla parte del cuore. Soltanto lo sguardo della donna è intento occasionalmente altrove ma il suo corpo ruota naturalmente su se stesso a protezione del piccolo, così da evocare, al di fuori di ogni possibile situazione storicizzabile, l’essenza strutturale, l’idea platonica, della perfetta relazione madre-bambino.

In primis, ne La Tradizione Psicoanalitica Britannica Indipendente, incontriamo insomma una rappresentazione esaustiva del concetto winnicottiano di holding materna.

I TEMI

CONTENITORE, REVÊRIE E HOLDING

Holding, Handling e Object presenting, – vale a dire, il contenimento, il prendersi cura e la presentazione dell’oggetto -, sono i caposaldi per cui il percorso evolutivo del bambino passa dalla dipendenza assoluta alla fase della dipendenza relativa sino al raggiungimento della indipendenza; questo movimento secondo Winnicott si concretizza più o meno felicemente in relazione anche alle condizioni ambientali.

Il concetto di holding, sempre presente nel discorso, è ripetutamente e pazientemente differenziato dal concetto di contenitore-contenuto bioniano con correlata rêverie materna. La madre di Bion, attraverso la rêverie, il fantasticare sul figlio, si immedesima nel bambino senza perdere la propria identità accompagnandolo nella ricerca di significati, mentre la madre di Winnicott nella holding funziona come madre-ambiente, che avvolge corporeamente il figlio segnandone la continuità dell’essere: going on being.

La madre ambiente riguarda gli stati di quiete, mentre la madre-oggetto, – secondo Winnicott – , si riferisce alla madre per come è percepita dal bambino nei suoi momenti di eccitazione. La riunione, nella mente del bambino, delle due madri sperimentate nelle due diverse condizioni – quiete-eccitazione – crea la premessa per l’acquisizione psichica della capacità di preoccuparsi. Questa funzione segna un livello più evoluto di organizzazione del Sé e di relazione oggettuale.

La sequenza citata a inizio paragrafo si è configurata nella fase matura di Winnicott per l’esigenza di teorizzare esaustivamente il meccanismo dell’energia istintuale messa al servizio dell’Io. Coniando una sequenza in chiave ambientale, da abbinare alla prima sequenza da lui concepita – continuità dell’essere, integrazione, relazione oggettuale e realizzazione, che descrive lo sviluppo precoce – , Winnicott ha potuto finalmente approdare a una teoria completa dei processi evolutivi sani e comunque ispirata al principio informatore del suo pensiero: Home is Where We Start From(1867); casa, è da dove abbiamo inizio.

LA RELAZIONE TERAPEUTICA

Il principio citato ha naturalmente una stretta consequenzialità con la impostazione britannica della relazione terapeutica, nella cornice del setting, che Giannakoulas così descrive: «L’accento è sulla reciprocità dell’essere dell’analista che facilita il potenziale dello sperimentare mutativo. Per lo psicoanalista britannico incontrare in maniera profonda il paziente significava recuperare i suoi valori, possibilmente i più antichi, come anche le potenzialità che vanno all’aldilà dell’idioma tradizionale e dell’articolazione linguistica» (p. 58).

Notiamo qui una sottesa polemica di Giannakoulas con lo strutturalismo linguistico e con la scuola psicoanalitica francese legata a Jacques Lacan, che ha influenzato molti Autori riferendo il processo psicoanalitico prevalentemente al Registro Simbolico, al linguaggio. Non è il caso ora di addentrarsi in una analisi approfondita delle affinità e delle diversità tra il concetto di Illusione di Milner e Winnicott, e di Immaginario lacaniano. Ci interessa invece cogliere quanto conti, per la tradizione indipendente, l’intensità e la donatività implicita di una relazione che lavora sulle emozioni transferali e controtransferali così profondamente da arrivare quasi sino alla carne, non solo nel paziente ma anche nell’analista.

Questa cultura di uno stile clinico coinvolgente in chiave profonda, sebbene contenuto nella neutralità analitica, si motiva con l’esperienza vissuta da varie generazioni di psicoanalisti britannici che hanno riveduto la tecnica per prediligere un modo di essere naturale, agile e sempre rispettoso del livello ottimale di sostenibilità del paziente, come ci racconta Giannakoulas di Winnicott: «Spesso la sua reticenza alla verbalizzazione a tutti i costi, la fertilità del silenzio (…) creavano un effetto di sensibilità quasi perduto negli incontri psicoanalitici. L’holding environment, cioè un milieu congeniale, analogo alle cure materne, veniva offerto per permettere al paziente rivelarsi a se stesso» (p.59 ).

LA REGRESSIONE

Entriamo qui nel filone centrale del libro cui è dedicato un intero capitolo ma che ricorre come motivo di fondo in tutto il lavoro: la Regressione Terapeutica. Su di essa il riferimento principale va a Balint (1968) e alla distinzione tra regressione benigna – ove la fiducia nell’altro da parte del paziente sia ingrediente dominante -, oppure regressione maligna, ove il paziente sia ingabbiato nella pretesa tirannica di risarcimento. In ogni caso lo scopo del trattamento facilita la regressione provvisoria del paziente e la sua dipendenza dallo psicoanalista per mettere in condizione il paziente di transitare dal difetto di base, alla condizione trasformativa di un nuovo inizio. Tale spazio potenziale innovativo sarà possibile, secondo il pensiero di Kahn, con due condizioni preliminari: a) l’abbandono dell’atteggiamento paranoico che comporta la rinuncia alla sospettosità; b) l’accettazione senza ansie indebite di un certo livello di depressione.

I giochi non sono intesi qui a esclusiva discrezione della patologia del paziente, come in Klein, ma si vi configura invece l’interscambio costante tra flessibilità ragionata dell’analista e potenzialità evolutiva del paziente. Tale equilibrio paziente-analista può talvolta nei vari Autori assumere proporzioni diverse sino al vertice esasperato dell’ultimo Khan, gravemente ammalato e troppo sofferente. Non senza un sentimento rispettoso ma realistico circa gli errori di cui si è parlato a lungo già prima della sua morte, Giannakoulas pubblica, senza ipocrisie, le due lapidarie pagine di Khan che risuonano come un drammatico testamento privato. Dello scritto, Infanzia, solitudine e follia, di Khan, dunque, – una testimonianza storica da non perdere -, riporto, per conoscenza, le ultime righe: «Spinti dall’ansia, tentiamo erroneamente di ricondurre a un senso questo non senso, ricostruendo i fatti (Winnicott) o le fantasie (Klein) dell’infanzia. Né gli uni né le altre possono aiutarci; il potenziale creativo della follia si ritrae nell’oblio, e l’analizzando non è più folle né solo, ma semplicemente smarrito e abbandonato » (p134,135.).

NON INTEGRAZIONE, INTEGRAZIONE, DISINTEGRAZIONE, DISSOCIAZIONE, TRAUMA

Nell’intento di ritradurre in termini squisitamente pragmatici la potenza quasi biblica di queste parole, possiamo riflettere sulla necessità clinica di rispettare il bisogno dell’analizzando di vivere, in presenza dell’analista, la sua dimensione di privata follia, che non vuol dire psicosi ma stati di pre-integrazione, e di vivere liberamente la segreta solitudine, che non vuol dire isolamento ma tentativo di essere soli in presenza dell’altro; il tutto in funzione e in conseguenza della regressione terapeutica benigna.

È già nella relazione primaria madre-bambino che si configura la condizione per cui la madre deve poter tollerare lo stato di non integrazione del bambino, prima che questi acquisisca stabilmente il senso della continuità dell’essere. Si può parlare di integrazione, dice Winnicott, solo dopo tale continuità; ma se lo stato che chiamiamo integrazione, dopo essere felicemente raggiunto, subisce per qualche ragione un breakdown, allora ci sarà 1’esperienza di disintegrazione, che segna l’ingresso in una area patologica.

La regressione terapeutica alla dipendenza, la regressione che Balint ha chiamato benigna dunque, punta a rintracciare nell’hic et nunc del transfert quegli stati arcaici e preverbali del tempo di una non ancora avvenuta integrazione. Se la holding materna non è stata adeguata o se gli eventi, comprese le esperienze di trauma, non sono commisurati al bisogno attuale soggettivo del piccolo, l’integrazione resta parziale e incompleta. Le parti non integrate diventano allora dissociate perché queste parti non integrate del Sé si smarriscono in qualche zona avulsa dall’insieme in cui avvengono le connessioni del processo evolutivo. Tale smarrimento impedisce al soggetto un processo elaborativo delle parti perdute.

La relazione terapeutica, per i fenomeni di regressione di cui stiamo parlando, comporta delle prove forti dal punto di vista professionale. Scrive Giannakoulas: «Sappiamo che nulla costa di più all’analista che catturare nell’hic et nunc la sostanziale intensità, la presenza quasi carnale e l’immediatezza sensoriale che queste narrazioni includono, ed è precisamente questa vicissitudine così concreta che rende il transfert essenziale» (p. 153).

And all is alwais now, e tutto è sempre ora: è la sintesi ineffabile della poesia di Eliot (op. cit.).

Grazie alla regressione, in qualche fase del lavoro analitico, arriva il momento in cui la dissociazione del paziente si collassa, e da tale cedimento emerge qualche frammento di antica memoria. Progressivamente gli aspetti del Sé che si erano smarriti sono segnalati e comunicati nella stanza di analisi a sé e all’altro. A questo livello, rimarca Giannakoulas, holding e contenimento sono fattori necessari, insieme, per visualizzare gli aspetti più arcaici del transfert e del controtransfert. È possibile allora pensare i veri termini di una relazione originaria sconosciuta all’analista e al paziente stesso grazie a: «una condizione che attende di immergersi in una consapevolezza corporea totale senza cercare la corretta interpretazione, in realtà senza cercare affatto idee, sebbene le interpretazioni possano emergere da questo stato spontaneamente» Milner (1987 p. 299).

QUALCOSA DI PERSONALE, PER FINIRE

Nella presentazione di Via dei Sabelli, Andreas Giannakoulas ha espresso la sua gratitudine nei confronti di Sara, prima paziente della sua vita professionale. Lavorare con lei gli ha insegnato molto, ha detto, e, infatti, di lei ha scritto generosamente nel libro, offrendo osservazioni dalle valenze poetiche addirittura su i movimenti nella sala d’aspetto, al primo appuntamento. L’omaggio a Sara in ogni modo ha segnato un momento di grande pathos nella mattinata sollecitando in me varie memorie di quei tempi lontani.

Di Sara noi parlavamo quando Andrea, – mi si conceda la confidenza – iniziava, negli anni di piombo i seminari romani dedicati al transfert erotico e agli acting in, nella stanza di analisi. Tali questioni appassionavano gli uditori ma allertavano in particolare quelli di noi che già trattavano adolescenti gravi, non solo adulti e bambini. Oltre Sarah, ne La Sibilla Morta, ultimo capitolo del libro, è presente anche Natalie, una paziente romana del tempo in cui Giannakoulas si era ormai trasferito in Italia. Natalie apre, a conclusione del testo, il tema della depressione materna, e Giannakoulas cita in primo luogo La riparazione in funzione della difesa materna organizzata contro la depressione, dove Winnicott, già nel ‘48, aveva rilevato la necessità del bambino piccolo di confrontarsi con l’umore della madre. Tale confronto secondo Winnicott va oltre al compito di evolvere dalla posizione schizo-paranoide per arrivare alla posizione depressiva, – Klein – e riguarda la concezione della madre-ambiente di cui abbiamo parlato.

Una volta immessi in questa area tematica, era d’obbligo arrivare alla Madre Morta di André Green, – psicoanalista niente affatto britannico ma molto francese di adozione -, che ha scritto pensieri memorabili sulle allucinosi e sugli esiti della depressione materna.

Come è ricordato nel libro, Green era di formazione lacaniana ed era stato analizzato da Nacht, psicoanalista a me caro per il suo lavoro sul Masochismo Primario Organico (1938), una concezione di grande interesse la sedimentazione corporea delle esperienze traumatiche precoci, che negli anni è poi divenuta questione assai diffusa nel campo psicoanalitico.

La citazione di Green, dunque, mi ha ricordato che, prima di incontrare Andreas, di Autori francesi ne avevo letti parecchi e, prima ancora che fosse tradotta, avevo anche studiato l’opera monumentale degli Ecrits di Lacan (1932), che avevo visto di persona e anche ascoltato nelle sue conferenze romane. Di lui apprezzavo la geniale Fase dello specchio presentata al Congresso Internazionale di Psicoanalisi di Marienbad nel 1932 e, a torto o a ragione, pensavo francamente che da tale teoria Winnicott avesse tratto ispirazione per il concetto di mirroring materna. In ogni modo, la lettura di tanti testi sacri, era servita per la mia tesi di laurea La relazione primaria nell’infanzia, dove M. Klein, ancora di gran moda negli anni settanta in Inghilterra, era da me presentata in chiave critica per la sua tecnica, che non mi era congeniale.

Quando partì il Primo Corso di Specializzazione alla Neuro Infantile, insomma, avevo le mie idee e gli Autori britannici non erano i miei cavalli di battaglia. Trovai comunque la mamma per la Baby Observation, – metodo Bick – che in Italia era una novità formativa assoluta. Fu la prima Baby del gruppo e fu supervisionata da Giannakoulas, in esclusiva, per un anno intero prima che qualcuno ne trovasse un’altra. Solo ora che la Baby è nota anche in Senegal, capisco di aver avuto un privilegio formativo senza confronti. E non è tutto. Allora ero seguita da Giannakoulas anche individualmente per un adolescente adottivo, trattato a tre sedute. La supervisione durò diversi anni con la conseguente trasmissione di una metodologia clinica di stampo anglosassone che riconosco come assolutamente rigorosa. Fatto sta che l’intensità di quella esperienza è stata forte per entrambe le parti, visto che Andreas, in occasione del suo libro, ricordava ancora come se fosse oggi – in una conversazione privata con me – , i sogni del mio paziente adolescente, adesso più che quarantenne.

Così è un grande maestro: spende tanto di sé che ha ottima memoria. Eppure, nonostante questa profondità di rapporto, qualcosa tra me e lui non era decollata sino a sfociare in amicizia incondizionata o in una collaborazione professionale stretta, come accaduto invece con altri maestri, quali Adriano Giannotti e Arnaldo Novelletto. Qualcosa è rimasto bloccato e ci siamo persi. Solo adesso, ritrovandolo, ho provato a pensare il perché.

La mia affezione verso gli Autori francesi non era condivisa da Andreas, che allora li guardava con cautela. Dal canto mio, l’impegno ideologico di cui parlavo, – che si configurava nell’obiettivo pionieristico di portare la psicoanalisi a pazienti giovani e poveri, creando strutture dedicate nel Servizio Pubblico, come poi è successo – non mi permetteva un plauso incondizionato verso un Principe indiano, psicoanalista a Londra, che lavorava in studio privato con gente del Jet Set.

Confesso che la questione per me era in questi termini, anche se si trattava dell’analista di Andreas.

Oggi la faccenda del Principe non ha più senso naturalmente, e anzi, a fronte di attacchi che hanno debilitato in patria l’immagine anche postuma di Masud Khan, ora guardo al suo rilancio della prima teoria di Freud – del trauma – in termini di Trauma Cumulativo, come a una svolta teorica epocale (Khan 1963). Da un altro canto inoltre Giannakoulas oggi cita abbastanza volentieri Autori di scuola francese come Nacht, Laplanche, Lacan, Ricoeur, Aulagner, Racamier e così via. In oltre trenta anni, insomma, qualcosa è cambiato.

Posso quindi dire a questo punto con una grande leggerezza d’animo che l’ultimo lavoro di Andreas Giannakoulas, presentato alla Neuro Infantile di Via dei Sabelli, si impone a chiunque lavori nel campo come opera di struggente bellezza – scientifica, storica, genealogica, letteraria, affettiva, personale – e che anche tale opera, per usare le parole del poeta, già citate da Andreas: «non è l’esperienza di una vita, ma di molte generazioni» (p. 23).

Così almeno Andreas ha voluto presentare agli uditori dell’aula il suo lavoro, come un libro “condiviso”. In questo pensiero c’è del vero forse, perché quel libro, pieno di selezioni raffinatissime di testi preziosi della psicoanalisi, che rende omaggio a tutti i suoi maestri, raccoglie anche quasi quaranta anni di insegnamenti gruppali e di supervisioni private, seguite ognuna con la dedizione che sappiamo. Si impara dai maestri, si impara dai pazienti e si impara dagli allievi: questo è un modo di sentire personale dove circola realmente la capacità di preoccuparsi … come scritto da Hernandez .

E allora, di fronte all’idea del libro condiviso, anche con noi allievi, ho potuto dentro di me giocare con la fantasia che le divergenze di un tempo, tra me e Andreas, lui le abbia ricordate e le abbia in qualche modo utilizzate. Vale a dire, mi concedo ora il piccolo lusso di fare mia l’ultima citazione del testo, tratta da Marion Milner: «L’essenziale dell’esperienza è quello che noi aggiungiamo a ciò che vediamo; e, senza un contributo da parte nostra, noi non vediamo nulla» (p.203).

Maria Antonietta Fenu

 

 

Bibliografia

  • BALINT M. (1968). Il difetto di base. In: La regressione. Milano: Cortina, 1983.
  • CELESTINI A. (2006). Scemo di guerra. Torino: Einaudi.
  • ELIOT T. S. (1964). Knowledge and experience. In: Four Quartet. London: Faber and Faber, 1976.
  • KHAN M. (1963) Il concetto di trauma cumulativo. In: Lo Spazio privato del Sé. Torino: Boringhieri, 1979.
  • LACAN J. (1932). Ecrits. Paris Editions du Seuil, 1966.
  • MILNER M. (1987). La follia nascosta delle persone sane. Roma: Borla, 1992.
  • MORANTE E. (1974). La storia. Torino: Einaudi.
  • NACHT S. (1938). Le masochisme. R.F.P. X, 2.
  • PASOLINI P. P. (1968). Il PCI ai giovani. In: Scritti Corsari. Milano: Garzanti, 1990.
  • PASOLINI P. P. (1974). Cos’è questo golpe? Io so. In: Scritti Corsari. Milano: Garzanti, 1990.
  • WOOLF V. (1931). Le Onde. Milano: Einaudi, 2006.

 

Lamento di Portnoy, di Philip Roth, ovvero,  quod turget urget,    “Come il popolo ebraico, l’adolescente vive uno   spossessamento della propria identità ed è costretto a un esodo verso una terra promessa ideale, libero dalla dipendenza infantile, ma privo della protezione che tale dipendenza gli dava.” ( G. Pellizzari)

           

Stili e culture

“ Che radar quella donna! Che energia in lei! Che perfezionismo!”…

Di chi sta parlando Alex, il tormentato protagonista di “ Lamento di Portnoy”, scritto da Philip Roth e pubblicato per la prima volta poco più di quaranta anni fa? 

Il titolo, tradotto in italiano, avrebbe in realtà potuto utilizzare i termini più letterali di “ lagnanza”, “ protesta” o meglio ancora di “sfogo”, forse meno idonei alle esigenze editoriali di allora, ma di sicuro più correttamente evocativi dello specifico registro linguistico utilizzato nel testo. Il libro, infatti, è articolato come travolgente e concitato monologo che Alex rigurgita senza soluzione di continuità nella stanza del suo terapeuta, una volta che, divenuto adulto, è inesorabilmente approdato sul lettino dello psicoanalista. Uno sfogo incontrollabile il suo, che lo vede ben distanziato dalla antica condizione dell’ infans – senza capacità di parolae nel quale, essendo oramai infelicemente uomo oltre che arrivato alla più impotente disperazione si accanisce a rievocare ogni dettaglio della prima fanciullezza e poi della esasperata  adolescenza, nell’estremo tentativo di sentirsi per una volta compreso. Stagioni della vita, quelle narrate, che Alex ha vissuto in qualità di figlio non solo nato in territorio americano, ma anche come appartenente a una famiglia ebraica  e pure allevato in ambiente rigorosamente borghese.

 “Mi controllava le addizioni  in cerca di errori; i calzini alla ricerca di buchi; le unghie, il collo, ogni piega o grinza del mio corpo alla ricerca di sporcizia. Mi draga persino i più remoti recessi delle orecchie versandomi acqua ossigenata nella testa. Il liquido frizza e scoppietta come una siringata di gazzosa, portando in superficie, a pezzetti, i depositi nascosti di cerume giallastro, il quale, a quanto pare, mette in pericolo l’udito dell’individuo…”.

Sono le immagini e le sensazioni legate alla memoria della madre che Alex rabbiosamente espelle dipingendo così, con tratti che rendono omaggio alla più esemplare tipologia ossessiva, la sua onnipresente e infaticabile funzione genitoriale. Una madre tesa costantemente alla pulizia, all’ordine, alla ricerca del difetto, alla enunciazione delle norme, al controllo su tutto e tutti, ma in primo luogo, una madre concentrata sul corpo e sulla mente del suo unico figlio maschio che dalla nascita ha votato alla più assoluta perfezione comportamentale e, di conseguenza secondo lei, a grandi e illustri destini. 

Il clima di casa Portnoy, nonostante l’analogo massiccio  investimento narcisistico sul figlio designato è alquanto diverso da quello respirato dal piccolo Jaromil, il protagonista del “ La vita è altrove” di Milan Kundera, l’autore che ha sostanzialmente prodotto, con questo romanzo successivo al più noto “ L’insostenibile leggerezza dell’essere”, un vero trattato in chiave letteraria sulle origini e sulle conseguenze del narcisismo patologico.   

Jaromil, prima ancora di nascere, era vagheggiato nella reverie materna, come un grande scrittore, come un futuro dispensatore di prodotti di alto valore artistico e che avrebbe dovuto librarsi su livelli di superba eccellenza creativa. Tutto ciò per soddisfare l’esigenza materna di risplendere, di edificare una immagine di sé sino a registri di adamantina bellezza intellettuale e  a dimostrazione, per luce riflessa ovviamente, di cosa lei stessa rappresentasse nel mondo e quindi di cosa fosse mai stata in grado di produrre. 

In casa Portnoy, secondo la narrazione di Alex, non circola in alcun modo un così incontaminato e libero spazio di esibizionismo narcisistico. Il tema centrale, nella encomiabile e irreprensibile famiglia borghese dove cresce, è quello del dovere, della fatica, delle ricompense guadagnate passo dopo passo col duro lavoro, col più costante sacrificio e con il più esemplare espletamento dei compiti. Il tratti dominanti della casa, in sintesi, sono quelli del SuperIo  e quello della più pura Analità.  

Alex non riceve mai elogi lusinghieri, generosi incentivi all’autostima o stimoli esaltanti come invece accade  a Jaromil, il quale, proprio in quanto allevato all’insegna del narcisismo grandioso, una volta che è lasciato solo dalla madre nella sala d’aspetto del suo dentista scopre  dolorosamente di dover porre un freno all’eccessivo esibizionismo verbale, quando una paziente adulta, li presente e in preda alla stizza, dice all’infermiera: “ Ma si può far tacere quel bambino, per piacere?!”. 

Lui invece, Alex, ha appreso sin dalla nascita un profondo senso del limite affinandosi precocemente in questa arte di ossequio alle norme, o meglio all’immagine sociale,  grazie all’incubo dello sguardo critico puntato permanentemente su di sé; il suo segreto narcisismo non può mai osare più di tanto o liberarsi impunemente, ma resta nascosto e conflittuale. Lui ha contratto un debito morale, dovuto da sempre, nei confronti di una madre che svolge le sue funzioni accuditive con il massimo dello zelo e che quindi, proprio per questo dettaglio, si colloca in una dimensione assolutamente perfetta. Inoltre, sin dalla prima infanzia, grazie ai rimproveri, alle punizioni e ai vaticini di sventura, – la madre, convinta che sia il miglior metodo educativo, lo minaccia col coltello quando da  piccolo non vuole mangiare -, sviluppa un metafisico e granitico senso di colpa che risulta bene inculcato nella sua coscienza. 

Figlio di una madre di tipo ipervigile, il giovane Alex rappresenta in breve uno di quei personaggi che, come gli analizzandi descritti dalla Mc Dougall ( 1990): “ agiscono come se fossero sottoposti a una legge materna inesorabile, che mette costantemente in questione il loro diritto all’esistenza e all’indipendenza…costoro si vivono come se fossero una estensione narcisistica della madre, si sentono obbligati a completare il suo senso di identità e a provvedere ai suoi bisogni.”. 

Figli molto amati forse e in qualche modo anche troppo curati ma che non hanno diritto a concepire desideri propri, pena la disapprovazione e il disconoscimento secondo la vecchia regola del: “ O con me o contro di me”.

Pulsione, compulsione e Figomania

Nel romanzo di Roth, in un inarrestabile fiume di parole e con tagliente ironia yiddish – per il lettore suona come irresistibile umorismo – Alex Portnoy ricostruisce accoratamente il contesto, la nascita e lo sviluppo di un disturbo che oramai lo ha portato allo stravolgimento morale nonostante l’eccellente prestigio sociale meritevolmente raggiunto nel campo lavorativo. Ora è “Commissario Aggiunto” per le risorse umane della città, in virtù della sua intelligenza, dell’immagine fortemente etica e anche dell’impegno infaticabile, che era forzosamente presente sin dagli anni della scuola: “ Non lo sanno tutti che io sono diventato l’uomo più virtuoso di New York, tutto nobili cause e ideali umanitari? Non sa che mi guadagno da vivere essendo buono?”.

Eppure, nonostante le migliori intenzioni,  nella sua vita c’era e c’è, sempre più manifestamente, qualcosa che assolutamente non va. 

Di famiglia ebraica “ stretta”, come si diceva,  cresciuto in un ambiente dove ciascuno dei genitori non poteva che porsi agli occhi del mondo  se non come perfettamente rispettabile e irreprensibile, Alex, corredato del suo incontaminato passato di figlio maschio prediletto, educato  in una famiglia più che unita e da sempre primo della classe, nonostante tutti questi invidiabili privilegi si trova angosciosamente “ ..travolto da desideri che ripugnano alla mia coscienza e da una coscienza che ripugna ai miei desideri. “, e sviluppa, con l’emergere della pubertà, un problema non solo molto intimo ma anche inconfessabile e inconciliabile con i dettami originari, problema che in termini tecnici rientra nella compulsione sessuale, e che  l’interessato indica in chiave più diretta col suggestivo termine di “ Figomania”

Accade, nel linguaggio, comune che le parole Istinto e Pulsione siano utilizzati come equivalenti. Nei suoi scritti Freud ( 1905) usa scrupolosamente il termine tedesco Trieb, pulsione appunto, –  centrato sull’idea di spinta così come accade in quello italiano derivato dal latino pulsare, battere -, per evidenziare una importante differenza. L’Istinto, Istinct, è qualcosa di innato che riguarda la intera specie, umana e non,  in termini abbastanza generali, come ad esempio l’istinto di sopravvivenza o quello della riproduzione,  mentre la pulsione risulta un concetto limite tra lo psichismo e il somatico in quanto percepita nel corpo e nella mente del singolo soggetto come stato di eccitazione che  spinge in direzione di qualcosa. Tale carica energetica si organizza quindi individuando un oggetto di desiderio e una meta possibilmente idonea al fine di raggiungere il soddisfacimento; in conseguenza del conquistato obiettivo pulsionale nasce l’esperienza di un confortante stato di benessere, vale a dire l’Appagamento. Ottenuto lo scopo, la tensione energetica si scarica sino a scomparire salvo a risorgere quando il bisogno e poi il desiderio si fanno nuovamente avanti. 

Non sempre le cose sono così lineari. Se all’interno di un soggetto si è creato un ingorgo tra rigidità del Superio e aree pulsionali, se il rapporto con i desideri è conflittuale e l’emotività  instabile, gli equilibri interni si perdono e le funzioni mediatrici dell’Io non sono più utili a una gestione equilibrata dell’economia interna .

La compulsione, come vedremo con Alex, è una forza cieca che non si pacifica con il raggiungimento dello scopo prefissato e non approda mai alla benefica esperienza dell’acquietamento, anche se il soggetto ne ha fatto in passato esperienza anche parziale, conservandone una traccia mnestica, o se in qualche modo la sta cercando ancora dentro di sé. La spinta interna preme qui in una direzione che non corrisponde al bisogno profondo del soggetto; un bisogno che rimane sostanzialmente nascosto, incompreso dall’interessato stesso, che non ha mai imparato a conoscersi. Così, quando il soggetto persegue un obiettivo illusorio, collocato sul registro dell’Immaginario ( Lacan 1964), non gli è mai possibile arrivare a un valido sollievo e all’ appagamento anelato, ma solo a una aleatoria scarica temporanea. 

Nella insoddisfazione permanente che deriva da tale fraintendimento interiore, il desiderio si riproduce infinite volte e si articola in forma di ossessione senza poter essere più governato dalla volontà e dalla coscienza. 

Per citare situazioni abbastanza chiare basti pensare alla cleptomania, in seguito alla quale alcuni individui sono indotti a rubare oggetti che non sono loro affatto necessari e senza che alla base vi siano neppure condizioni di indigenza; a certe forme patologiche come la ritualizzazione ossessiva della pulizia, in cui si è obbligati a lustrare e lavare sempre anche dove non c’è sporcizia, pena una angoscia inaffrontabile, o la bulimia in seguito alla quale alcune persone si ingozzano di cibo a qualsiasi ora del giorno e della notte senza neppure aver fame. Ancora più banalmente possiamo considerare la compulsione agli acquisti, per cui alcuni individui – i cosiddetti serial shopping – non possono fare a meno, esattamente come i giocatori col gioco d’azzardo e i tossicomani con la droga, di comprare. Qualsiasi cosa solleciti l’immaginario del soggetto. 

Il pubertario: quando … quod urget turget

Per tornare al nostro Alex, dopo una fanciullezza da bambino modello arriva anche per lui il momento dello sviluppo puberale. In quella età, come noto,  il corpo sperimenta un nuovo genere di spinta in seguito allo sviluppo ormonale. L’adolescens si trova a fronteggiare pulsioni sconosciute rispetto a quelle semplici nella fase precedente come ad esempio la fame, ed è indotto a sondare, per vie sperimentali e immature, il funzionamento corporeo che ha assunto caratteristiche sessuate. E’ di solito per caso che saprà concretamente, muovendosi per tentativi ed errori, di un potenziale godimento, quello orgasmico ( Roussillon, 1997),  sino ad allora non conosciuto e neppure prefigurato. 

Per quanto correttamente sia stata curata una buona educazione sessuale, eventualmente con pittoresche metafore sul modo in cui nascono i bambini, è raro che i genitori delle famiglie anche più avvedute trovino un modo naturale, semplice,  di addentrarsi in particolari sostanziali come l’esperienza orgasmica, di cui forse sono un po’ vergognosi di fronte ai figli. Eppure nella sessualità, di sicuro, tale ingrediente, c’entra. Così, quando un ragazzo o una ragazza entra in fase puberale e affronta l’inizio dell’adolescenza, non sa in sostanza nulla di certo del funzionamento più intimo e intenso del suo corpo. Finisce prima o poi per doverlo scoprire da solo. 

E quanto accade ad Alex nel momento del cambiamento pubertario che, come sottolinea P. Gutton ( 2008),  non è esattamente una metamorfosi come scrisse Freud nel 1905, ma una fase di totale innovazione e invenzione, da intendersi come un vero e proprio  “Inizio”. 

La genitalità pubertaria avvia la sua rivoluzione contro la sessualità infantile e la relativa onnipotenza delle fantasie, creando un doppio movimento: il corpo supera i limiti precedenti e acquisisce competenze superiori con la capacità di dare la vita e di dare la morte mentre il pensiero, ampliandosi, deve gradualmente approdare a livelli più complessi con un funzionamento di tipo preadulto;  cioè confrontarsi con questioni come la differenza tra le generazioni, la ineluttabilità della morte, il divieto all’incesto e l’esame di realtà. ( Ladame, Catipovic, 2000)

Alex, allertato in famiglia contro i mille pericoli che minacciano il corpo e la salute, scopre la masturbazione e i poteri entusiasmanti del proprio genitale maschile che finalmente gli consente di misurarsi con stati di inesplorata  eccitazione. A partire questo punto, accecato dalle pulsioni, si lascia prendere da un vortice di sfide sempre più peccaminose nei confronti delle anguste tradizioni familiari.  

Lui che aveva vissuto il più rigido divieto di  contaminarsi con semplici piatti non kasher, e con tutto quanto si discosta dalla cultura ebraica, scopre  la trasgressione in tutta la sua varietà e tempestosità in una esperienza che dentro di lui cozza e contemporaneamente si intreccia  con la dominante anale dello stile della casa.   

Quell’onesto e timorato uomo che e’ il padre, assicuratore convinto ma  modestamente valorizzato nell’ambiente di lavoro, passa la vita a combattere lamentosamente la sua cronica stitichezza con prugne, crusca e sedute interminabili nel bagno, uno spazio da lui istituzionalmente monopolizzato. Così, non a caso, le compulsive masturbazioni di Alex si scatenano principalmente nei bagni e in quel bagno prediletto dal padre, non solo in momenti segreti, ma provocatoriamente  anche durante in pasti amorevolmente e perfettamente preparati dalla madre, utilizzando per le sue improbabili fughe dalla tavola la giustificazione incontrobattibile di incontenibili diarree. 

Il padre, esasperato, protesta di fronte a tale occupazione abusiva che lo spodesta irriguardosamente del suo regno, – il figlio, per chiudersi in bagno, millanta un problema che è esattamente l’opposto del suo -,  mentre la madre si affanna dietro la porta, che ingiunge di aprire, e insiste a interrogarlo su eventuali perniciose assunzioni di cibi proibiti – hamburger, maionese, crostini di fegato, tonno, krapfen, insomma tutte le note “sozzerie” non ebraiche – che assolutamente secondo lei… uccidono. La sua richiesta perentoria è di esaminare personalmente le feci del figlio, procedura indispensabile a mettere in risalto la sua dominante competenza genitoriale e a dare una valutazione risolutiva del problema, una volta per tutte. 

Non passa neppure lontanamente, nella mente di questi sprovveduti genitori, il pensiero, ovvio, che il corpo del figlio sia in fase trasformazione e di rinnovamento adolescenziale, e che la loro presenza potrebbe avere una sensibilità nuova in tal senso. Non sono pronti al nuovo, ma si muovono sul piano della negazione di esso.

La dinamica circolare, madre-padre-figlio adolescente di fronte alla porta del bagno – quando il puberale reclama l’identificazione di ordine genitale-libidico con il genitore del proprio sesso per una rivisitazione dell’Edipo in cui il padre dovrebbe rappresentare la funzione normativa  sulla gestione del desiderio, invece di porsi come l’elemento secondarizzato della madre, la quale invece impone una sua priorità invasiva sul corpo del figlio -, è dunque orchestrata da Alex il cui inconscio “ interroga” (Gutton, 2008) l’esperienza infantile, senza sapersene discostare evolutivamente ma secondo un gioco che cela ed espone contemporaneamente segnali del cambiamento. Un fattore psicofisico rispetto al quale lui non è sostenuto né indotto ad avere alcuna fiducia da parte delle due figure genitoriali, come sarebbe invece necessario  in ambito familiare ( Gutton, 2008) per un più solido percorso pubertario. 

L’unica certezza che ha conquistato, ora, è il suo pene. E’ l’unica cosa al mondo che può considerare, senza ombra di dubbio, sua.  

Sessualità e analità, eccitazione e colpa nel suo specifico percorso  si alternano sino a scatenare in Alex Portnoy improbabili ma assai familiari presagi di morte, che corrisponderebbero alla inevitabile punizione divina. Una macchietta scura, “diagnosticata successivamente come efelide”, compare in una ansa del suo genitale dando il via alla certezza biblica di un tumore. A quel punto, perso per perso, condannato nella fantasia a morire, Alex si scatena in ulteriori, estreme,  ma incredibilmente esaltanti esercitazioni masturbatorie: nel reggiseno della sorella, nei calzini lavati dalla mamma, ovunque, sino alla prima premonizione di stampo parzialmente oggettuale che si profila con lo stupro di una bistecca di fegato appositamente comprata dal macellaio.

 La fantasia masturbatoria di Alex, cresciuto in una casa lustra come uno specchio, è una vagina vogliosa e insaziabile che lo reclama come potente e irresistibile “ maschione”, non solo dispensatore di piaceri irripetibili ma anche capace di estatici godimenti erotici.  E’ esattamente l’opposto di quanto rappresenta il padre in famiglia, con la sua inguaribile stitichezza: “ …se solo mio padre fosse stato mia madre e mia madre mio padre! Chi dovrebbe, di regola, avanzare contro di me retrocede; chi dovrebbe retrocedere, avanza!” 

Alex, a causa di questo gioco di ruoli, prima ancora di riattraversare la fase edipica in età adolescenziale, per usare parole della Mc Dougall ( 1990), si trova nella situazione di: “. figlio che sembra credere che il sesso e la presenza del padre abbia avuto un ruolo insignificante nella vita della madre…così il sesso e la presenza del padre sembrano non avere avuto un ruolo strutturante nell’organizzazione psichica del bambino…quando non esiste una fantasia  del pene paterno che svolga un ruolo libidico e narcisistico complementare nella vita della madre, la rappresentazione mentale del suo stesso sesso diviene quella di un vuoto illimitato …[ sino a ] proiettare su questo vuoto tutte le espressioni della sua megalomania infantile senza incontrare alcun ostacolo”( Mc Dougall 1990, pp. 117)

Solo nella sua emergente sessualità, campo negato e precluso alla impostazione asettizzante della funzione materna, Alex, adolescente, realizza di fatto una scoperta del tutto nuova di sé che lo induce a misurarsi in chiave immatura con l’onnipotenza e la grandiosità così precocemente e tenacemente compresse in epoca infantile. 

 La Désaffectation e la libertà

Incapace di gestire l’eccitazione e il desiderio Alex , un tempo bambino inibito a cui ogni impulso individuale era vietato, si smarrisce insomma in eccessi che nulla hanno a che vedere con la genitalità e con la relazione oggettuale di stampo adulto. 

Impossibilitato a conoscere globalmente il proprio corpo, così come di riconoscersi nei più veri sentimenti privati e negli affetti, costretto dalla costellazione originaria e quindi inadeguato soprattutto nel fronteggiare il rischio della dipendenza dall’Altro, Alex esaurita la fase della masturbazione prende quella della “Figomania”, suo modo deliberatamente sconcio ma efficace di definire i piaceri della sessualità,  e per altri versi utile anche a svelarne la patologia di area psicofisica desaffectée.

Il termine francese Désaffectation definisce un concetto caro alla Mc Dougall (1990), che lo utilizza per le psicosomatosi e per un certo tipo di sessualità compulsiva, e nasce da un contesto  non scientifico in quanto legato a quelle situazioni concrete in cui c’è stato un cambio di destinazione rispetto a quella originaria, come ad esempio accade a una chiesa che è stata sconsacrata. Il cambio di destinazione può, analogamente a una struttura architettonica,  verificarsi all’interno di particolari aree del mondo interiore di un individuo e del suo funzionamento psichico. 

Il concetto riguarda un meccanismo patologico che utilizza la diffusione per cui i soggetti “ ..si sforzano continuamente di disperdere immediatamente, sotto forma di azione, l’impatto di certe esperienze emotive. Ciò vale tanto per gli affetti generatori di piacere che di sofferenza…L’angoscia rende ingegnosi. Lancia segnali di allarme, ( le rappresentazioni dolorose sono o immediatamente espulse o scaricate nella azione) e certi individui corrono il rischio di non accorgersi di essere psichicamente minacciati.….[ si tratta ] non di una incapacità di contenere o esprimere emozioni ma di contenere un eccesso di esperienza affettiva e quindi di una incapacità a riflettere su tale esperienza “ ( Mc Dougall, 1990, pp. 100-102)

Riflettere? Non è un punto di forza, per Alex. Il suo problema centrale è l’impossibilità di affrontare una esperienza relazionale completa perché soggettivamente insostenibile; cosi avviene in lui, incapace di pensare su di sé, di dare un senso al proprio sentire, in una parola del tutto precario nel processo di soggettivazione, lo snaturamento e il cambio di destinazione della pulsione sessuale, che in ultima analisi è legata alla riproduzione. Questo a partire dallo sviluppo puberale, secondo un processo di désaffectation che ha esteso alla sua intera vita sentimentale. 

I legami del giovane Portnoy si orientano su donne fatue, disinvolte, poco impegnative, di livello culturale nettamente inferiore al suo e tutte, Mary-Jane, Kate, Sarah, ecc.,  di certo femmine molto eccitanti ma rigorosamente “shikses”: di origine non ebraica. Non sentendo una vera appartenenza rispetto al paese natale, gli Stati Uniti, ma neppure nei confronti della lontana terra originaria, Israele,  trovandosi psicologicamente in una terra di nessuno abitata prevalentemente dalla colpa, nella scoperta della sessualità sperimenta l’unico modo apparentemente non monitorato dalla madre di appropriarsi di quel mondo vietato che ha vissuto sempre in posizione di diverso.  Si comporta, in sintesi: “ come se scopando volesse scoprire, conquistare l’America.” Cioè: “ possedere” la sua madre-patria, dove è stato indotto a sentirsi inadeguato e straniero. 

Vive il suo prestigio sociale come una truffa, – un falso Sé -, e si muove clandestinamente in una chiave che è quella della foga e della violazione. Tutto ciò degrada e rende degradati. Alex non viene a capo del suo bisogno di esistere come soggetto e di sentire una solida appartenenza.  Non c’è in questo suo movimento inelaborato lo spazio di vivere i sentimenti, i legami e le relazioni affettive in chiave feconda e calorosa, di sentirsi a casa. Non sa cosa è l’amore. Credendo di superarla si muove sul piano della dipendenza, come se il sesso equivalesse a una droga, e rimane nella sua infelicità stuporosa di cui non ha però coscienza. 

Sino a un certo punto della sua vita, insomma,  il suo problema resta sostanzialmente sul piano egosintonico.

“ Restituiamo l’ID ( inconscio) all’YID ( ebreo)”, sarà la battuta che segna la sua nuova consapevolezza, sopraggiunta solo  quando, traumaticamente, prende un contatto frontale con la sofferenza.  

Illudendosi di svincolarsi dalla famiglia e di disidentificarsene, era partito per un lungo viaggio nonostante gli ostacoli opposti dalla madre. Approdato, dopo un lungo giro,  alla Terra promessa, avverte con trepidazione delle sensazioni per lui sconosciute: “ Lascio la stanza per andare a fare un tuffo in mare con i gioiosi ebrei. Sguazzo in una mare pieno di ebrei. Ebrei che scherzano e fanno capriole. Guardare le loro membra ebree che cha si agitano nell’acqua ebrea. Guardare bambini ebrei ridere, comportarsi come se fossero i padroni del luogo…e lo sono! Su e giù per la spiaggia, a perdita d’occhio, ebrei. Sotto di me la sabbia è calda: sabbia ebrea….Alex nel paese delle meraviglie!”.   

Emozioni, sorpresa, leggerezza dell’essere, qualcosa dentro di lui  si muove e slatentizza una sorta di magica nostalgia. Forse Israele lo risarcisce della perdita irreversibile dell’”involucro” che un tempo lo aveva “contenuto” e che un giorno era stato tagliato via per sempre dalla pancia della  madre? Forse ha trovato-ritrovato, nella terra degli avi, la innocente, primaria e perduta dimensione della felicità? Forse, in quella terra vissuta sempre come lontana, finalmente ha incontrato la condizione profonda della libertà?

“Libertà”, scrive Pellizzari (2007)”…si esprime nell’attraversamento del vuoto, conseguenza dell’uccisione simbolica dei genitori che genera la solitudine del giovane adulto, orfano di fronte all’incertezza delle scelte che deve compiere. Il vuoto, se non viene riempito compulsivamente  di agiti solo apparentemente trasgressivi ma in realtà regressivi, non è mai assoluto ma sempre, per così dire ombreggiato dall’oggetto edipico rimosso, divenuto inconscio, che svolge una funzione non interamente deterministica, ma anche orientativa   e favorisce i processi di identificazione e disidentificazione con nuovi oggetti di investimento…” 

Alex non ha compiuto tale percorso simbolico, non ha vissuto in termini risolutivi l’elaborazione dell’Edipo, non ha potuto veramente esistere. Ci sono vuoti dentro di lui – quello infantile dell’elemento terzo maschile-fallico-libidico, e quello adolescenziale del confronto con lo stato di solitudine-disidentificazione – che nelle varie tappe della sua vita non hanno potuto ricevere la giusta risposta.  I vuoti che ha incontrato sono stati coperti da falsi contenuti e da strategie illusorie. In breve, la funzione regolatrice e normativa del Fallo (Lacan, 1966), simbolo della castrazione paterna e del superamento dell’Edipo, non ha preso il posto di un SuperIo arcaico ( legato alla intrusività materna) che continua a entrare in conflitto con la esuberanza delle pulsioni. Di qui, le prevedibili conseguenze.

Proprio lì, in Israele, oramai uomo maturo ma ancora interiormente irrisolto per l’incompiutezza della propria adolescenza, incontra una donna bella, di pelle abbronzata, con occhi verdi, colta, tenente dell’esercito, animata da una ideologia profonda e, naturalmente, ebrea come la madre di lui: di quella donna, crede, potrebbe per una volta essere innamorato! Ma  proprio li invece, proprio allora, il suo illusorio punto di forza, il mitico pene, con la sua velleità di onnipotenza, impietosamente lo tradisce

“ Dottore, forse gli altri pazienti sognano le cose….a me succedono. Dottore, non riuscivo a farmelo rizzare nello stato di Israele! Che ne dice di questo simbolismo, bubi? Chi sarebbe capace di far meglio? Non mantenere una erezione nella terra promessa! Proprio questo mi serviva, quando lo volevo, quando c’era qualcosa di più desiderabile della mia mano da penetrare !”.

Lo psicoanalista non ha detto e non dirà nulla tutto il tempo dello sfogo. E’ in ascolto, con una disposizione empatica. Comprende. Tutte cose, queste, assai  poco familiari per i Portnoy!   

Al culmine dell’inarrestabile soliloquio, che in un crescendo di emotività lo vede stravolto dalla impotenza e dalla disperazione, Alex non ha più parole per liberare l’angoscia ed esplode in un estremo, incontenibile grido… La sua è una  impossibilità di dia-logare con l’Altro in nome della priorità- necessità di ex-pellere, secondo lo stile insuperato che ha vissuto in famiglia. 

Il buon analista non entra nel gioco degli agiti e non interpreta ( Aulagnier 1994). Semplicemente restituisce: “Allora, forse adesso potremmo cominciare. No?”. 

La relazione analitica, come la pubertà, è talvolta un Inizio.

Maria Antonietta Fenu

 

Riassunto

L’autrice, seguendo le memorie dell’infanzia e dell’adolescenza di Alex Portnoy, nato negli Stati Uniti da una famiglia ebraica, collega ai tratti ossessivi della madre e al suo narcisismo ipervigile, lo sviluppo, nel figlio, di una sessualità compulsiva. L’impossibilità di elaborare correttamente le varie tappe dell’ Edipo, prima dell’adolescenza  e durante, la conseguente impossibilità di stabilire una relazione di tipo genitale, crea con le diverse tappe evolutive dei vuoti gravi nel funzionamento interiore di Alex, che egli, ragazzino immaturo, crede illusoriamente di risolvere attraverso la scarica pulsionale e gli agiti compulsivi. Liberare la tensione per l’incapacità di contenerla e gestirla non coincide con l’esperienza dell’appagamento, ma induce a una ripetizione ossessiva, fuorviante e deludente. Tale malinteso nasce da una lacunosità del processo di soggettivazione e dello spazio psichico, inadeguato a individuare e raggiungere un profondo soddisfacimento dei bisogni, sino al doloroso traguardo della consapevolezza.  Anche dall’analista, sebbene desideroso di venire a capo dei suoi problemi, Alex ripeterà, agendolo, il suo vuoto, attraverso una modalità compulsiva dell’uso della parola. Alex, stretto tra un SuperIo arcaico e la tirannia delle pulsioni è incapace sia di riflessione sia di elaborazione: espelle. Sarà compito dell’analisi ripartire dall’Inizio. 

Parole chiave

Narcisismo grandioso, narcisismo ipervigile. Pulsione, compulsione, espulsione. Dèsaffectation, diffusione. Fallo, castrazione, funzione normativa. Vuoto. Inizio.

BIBLIOGRAFIA

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  • Roussillon R. ( 1997): Il setting psicoanalitico, Roma, Borla

 

Il titolo vuol dire “Prendili per tempo” e il contenuto del breve testo descrive come trasformare un breakdown in una breccia (breakthrough) nel Sé del paziente; lo scopo inconscio del breakdown, spiega l’Autore, è di presentare il Sé all’altro per ottenere una comprensione trasformativa.

Christopher Bollas, presentando il suo approccio radicale al trattamento delle persone sull’orlo del crollo psichico, offre un nuovo e coraggioso paradigma clinico che risulta di estremo interesse per uno psicoterapeuta psicoanalitico.

Catch them” offre un’altra visione alla comprensione dei vari vertici riguardanti il trattamento del “breakdown” di quelle persone che definisce un “Sé a pezzi”.

In quest’epoca, in cui i trattamenti psichiatrici e gli interventi cognitivo-comportamentali risultano l’approccio più prudente e al tempo stesso più efficace, Bollas riesce a dimostrare l’importanza di un approccio intrapsichico allo stato mentale della persona in breakdown e presenta varie ragioni convincenti sull’importanza di fornire al paziente un’esperienza in cui l’eruzione inconscia possa facilitare un “nuovo inizio psicologico”.

Il testo è sorprendentemente semplice da seguire, sebbene comporti spesso la necessità di tornare indietro di qualche pagina per rileggere alcuni passaggi fondamentali. Rivisitando il volume, infatti, si trovano e ritrovano continuamente pensieri che possono essere utilizzati in tutti i modelli del discorso psicoanalitico e, al tempo stesso, si rimane costantemente con un sentimento di speranza e di fiducia sull’importanza di sostenere coloro che devono affrontare un dolore mentale inimmaginabile. Questi vissuti rappresentano un dono raro quando si legge un libro sia per il lettore che non è del settore sia per uno psicoterapeuta professionista.

Bollas inizia la sua ricca esplorazione con la fenomenologia dei “Sé spezzati” – quelli che hanno subito precedenti breakdown non psicotici – e descrive le variazioni che tali Sé spezzati possono presentare e le possibili conseguenze dannose a cui può andare incontro il paziente quando, davanti al “crollo”, lo psicoanalista ansioso lo indirizza a una terapia di gruppo o a un training di gestione dell’ansia oppure dà indicazioni per un ricovero ospedaliero e/o un intervento psicofarmacologico: in questo modo il breakdown diventa strutturale e «la personalità si ricostituisce intorno agli effetti del breakdown, riordinando il Sé al fine di funzionare e sopravvivere in condizioni significativamente ridotte. Questo preannuncia una esistenza futura misera” (p. 25). Si nega infatti al paziente l’opportunità di un trattamento psicoanalitico intensivo che – nella tecnica proposta da Bollas – può durare un’intera giornata o anche più giorni all’interno dello studio dello psicoanalista.

Il capitolo “segnali di breakdown” richiede più letture e risulta difficile poterlo sintetizzare in una sola recensione. Riporterò solo alcuni pensieri nodali sui “segni di breakdown” in cui lo psicoterapeuta psicoanalitico può imbattersi: un rallentamento della consueta modalità di parlare, uno sguardo fisso nel vuoto oppure un esordio improvviso, più frequente in pazienti molto vulnerabili, ma con difese rigide. Il terapeuta deve scoprire in dettaglio cosa è accaduto nei giorni precedenti e deve tollerare il fatto che il paziente possa rispondere “niente” più volte. L’analista a questo punto deve diventare “inquisitivo” – afferma Bollas – offrendo una presenza terapeutica attiva e ponendo domande precise come: «Raccontami solo quello che hai fatto durante il week-end» oppure «Allora, che succede?”.

Nel capitolo successivo Bollas indica le linee guida per lavorare con le persone che hanno un breakdown come, ad esempio, l’importanza di collaborare con uno psichiatra, di trovare un taxista che garantisca la partecipazione alle sedute e il ritorno a casa, gli aspetti relativi al pagamento, ecc.

Ampio spazio è dedicato ai resoconti del lavoro concreto svolto con i pazienti: Emily, Anna, Mark e, infine, Bollas dedica uno spazio all’indagine sulla natura dell’esperienza differita che ha portato al breakdown.

L’analista – sottolinea Bollas – deve attendere fino a quando l’analizzando non sarà in grado di parlare e, se questo richiede più tempo di quanto se ne utilizza in seduta, allora occorrerà fornirgliene di più. Il tempo, sostiene l’autore, è la variabile cruciale se si vuole aiutare un paziente sull’orlo del crollo psichico (p. 82).

Un altro tema, nel pensiero di Bollas, è l’importanza della “spiegazione”, scritta o meno, che serve alla persona che sperimenta un breakdown; la spiegazione rappresenterà l’“oggetto lucido”, ovvero fungerà da organizzatore psichico favorendo lo sviluppo di una nuova struttura psichica del Sé.

Questo libro indica ai clinici che il lavoro psicoanalitico tradizionale è insufficiente con i pazienti in breakdown e che è necessaria una psicoterapia psicoanalitica intensiva e, a tratti, anche direttiva. Leggere la stimolante proposta di Bollas susciterà nel lettore molte domande; alcune di queste, nella sezione finale del testo, si ritroveranno sicuramente in quelle poste da Sacha Bollas all’autore attraverso un preciso schema di domande e risposte.

In conclusione, conoscere il modo di lavorare di Bollas potrà rendere il difficile lavoro psicoanalitico più promettente per il futuro e, come tale, la lettura di questo testo potrà rappresentare per il clinico il suo oggetto lucido, ovvero l’opportunità per un nuovo modo di lavorare come psicoterapeuta con i casi difficili.

Salvatore Capodieci
Socio ordinario della SIPP

Come spesso accade i romanzi e le novelle di Balzac subiscono molti rifacimenti e spesso cambiano titoli. Anche questo lungo racconto – o se vogliamo dire romanzo – di Balzac ha avuto una lunga gestazione. La prima versione è intitolata “La Transazione” si presenta pubblicata in quattro puntate sulla rivista letteraria “l’Artista” a febbraio ( il 19 e il 26) e a marzo ( il 5 e il 12 ) del 1832. Balzac ha 34 anni, iniziano i suoi successi letterari con La “Fisiologia del Matrimonio”, con “La pelle di Zigrino”.

La consacrazione come scrittore di successo avverrà, però, nel 1833 con “Eugénie Grandet “e nel 1835 con “Le père Goriot“, ma ancora non è delineato il grande progetto della “Comédie Humaine“.
Nel 1834 appare una seconda versione rimaneggiata con un nuovo titolo “La Contessa con i due mariti“, pubblicata con l’editore Bechet, nel XII tomo delle “Scene della vita parigina“, nella parte riguardante “Gli studi dei costumi del XIX secolo.“
La terza versione vede finalmente, nel 1844,il titolo definitivo, “Il Colonnello Chabert“, all’interno della Comédie Humaine con l’editore Furne, nel II tomo delle “Scene della vita parigina“.
Balzac, però, non fu molto contento del titolo.
Sempre rifacendoci alla seconda versione Balzac sognava di inserila in un volume “La Causeries du soir“ e in seguito di pubblicarla in due volumi negli “Studi di donne“. Infatti era molto interessato all’universo femminile. Sopra un foglio egli aveva fatto degli appunti a riguardo, pensando di approfondire i temi femminili ; donna sola, con due mariti, abbandonata, senza cuore, ecc.
Avendo ricevuto solo un acconto dall’editore de “L’Artiste“, Ricour, si arrabbiò molto con lui, perchè questi aveva ceduto a sua insaputa i diritti all’editore Fournier, che a sua volta aveva pubblicato il racconto nella sua rivista “Le Salmigondis“ e aveva messo il titolo “Le comte Chabert“ . Balzac contestando Ricour in quanto non aveva il diritto di cedere la proprietà della “Transazione“ gli fece causa presso il Tribunale del Commercio. Soltanto dopo due anni, nel 1834, vincerà la causa e chiederà a Mme de Berny di fare le giuste correzioni in quanto la rivista aveva delle imperfezioni e lui essendo rientrato nei suoi diritti poteva rivedere la dua opera.
Questo lunga genesi ci regala, però, un capolavoro.”

Entriamo adesso nel vivo dell’opera. Dal punto di vista psicoanalitico il romanzo esprime la sofferenza di una ferita narcisistica, talmente intensa da incidere sull’identità. Un’dentità ritrovata a fatica, per la quale si è lottato e che per il mondo, secondo gli aspetti legali, non esiste più.

Il moderno Ulisse,- il Colonnello Chabert – al suo ritorno dalla guerra, creduto morto, non trova una casta Penelope ad accoglierlo, ma una donna senza cuore, spregiudicata e perfida.
Balzac, in questo romanzo, ha messo in luce sentimenti forti, pieni di patos, che rimandano a problematiche personali. È spesso il suo inconscio a parlare e a essere drammatizzato nei suoi personaggi. Cosí viene messo in scena l’abbandono materno, il desiderio di vendetta, la delusione subita.
La forza della proiezione è uno strumento letterario potente, ma solo un artista è capace e può essere in grado di maneggiarlo. Ciò che si vive nella realtà viene riletto e restituito ad un ordine collettivo. Assistiamo a pagine nelle quali, la derisione, l’ingenuità, l’umiliazione, la violenza, la bontà, la comprensione, l’altruismo, la lealtà, il disinteresse, la perfidia, l’egoismo, l’inganno, la caduta dell’amore, l’orgoglio si fanno carne nella eterna dialettica tra la vita e la morte.
Nel Colonnello Chabert si racconta una storia di guerra, una delle tante vicende, a cominciare dai racconti classici, del ritorno di un reduce. Dopo otto anni, dopo traversie infinite, egli si presenta nel teatro della sua vita, creduto solo da chi ha un’anima retta e onesta, da chi è capace di cogliere la verità autentica.

Poche persone secondo Balzac hanno questo dono.
Un dato molto importante per comprendere meglio il romanzo è rappresentato dalle influenze che il nostro scrittore ha vissuto in famiglia, essendo il padre un funzionario militare prima nell’armata repubblicana, poi nell’armata imperiale fino alla disfatta di Waterloo. Non solo aveva potuto ascoltare avvenimenti di soldati che avevano perso la memoria circa la loro persona, ma anche che ritornavano come dei “ redivivi“. Inoltre era presente in quegli anni un certo interesse per la letteratura militare e lo stesso Balzac si era cimentato, anche sotto pseudonimo, nel 1828 in“Le Dernier Chouan“ e in altri racconti che è lungo ricordare.
Un altra considerazione da non fare passare sotto silenzio, palesemente presente ne “Il Colonnello Chabert“, riguarda l’esperienza notarile di Balzac presso lo studio di Guillonnet – Merville e di Victor Passez a seguito della sua laurea in giurisprudenza voluta da sua madre.
Fin dall’incipit ci troviamo nella realtà da lui vissuta e assistiamo dal punto di vista tecnico ad una delle caratteristiche di Balzac; quella di far presentare il personaggio principale dai personaggi secondari. Il colonnello Chabert viene presentato attraverso le parole dei “galoppini“e si preannuncia con quelle che sono le caratteristiche della sua vicenda esistenziale, con una descrizione fisica di grande sofferenza e di grande povertà.

L’aspetto che colpisce é la commistione di realtà e di fantasia che sempre troviamo nell’opera del nostro scrittore.
Egli infatti concepiva la vita come un romanzo e il romanzo come la vita. Un visionario travestito da realista come affermava Baudelaire.
La descrizione puntuale, il linguaggio del quotidiano sono espressione di una tecnica letteraria ormai matura che si esprime in ipotesi rendendo il lettore incuriosito e sospeso di fronte agli avvenimenti. Il romanzo si articola tra le due realtà parigine, il quartiere dei ricchi, il faubourg Saint- Germain e quello dei poveri, il quartiere Saint -Marceau, ma l’avvenimento più importante è rappresentato dalla battaglia di Eylau del 1807, una tra le più sanguinose battaglie nella quale Napoleone sconfisse i Russi.

Non è un caso, quindi, il fatto che Balzac si rifaccia a questo episodio storico. Egli era un grande ammiratore di Napoleone, tanto che spesso aveva affermato che sarebbe diventato un Napoleone della penna. La sua grande ambizione e la consapevolezza del suo genio gli fece dire :“ Quello che Napoleone non riuscì con la spada io lo condurrò a termine con la penna“.
Con estrema maestria, leggerezza e profondità Balzac dosa le varie parti del romanzo, storiche, sentimentali, sociali e giuridiche. Il lettore è catturato da emozioni diverse.
Si diverte nella descrizione scanzonata dei giovani “galoppini“ dello studio, prova orrore nelle immagini di guerra, ammirazione per la forza morale del protagonista, disprezzo per la falsità della moglie, conforto per la professionalità dell’avvocato.

Potremmo affermare che la morale del “Il Colonnello Chabert“ risiede nell’affermazione della ricerca della vera identità, del “vero Sé“, non di una identità falsa non nella sola identità sociale, ma in quella che l’individuo da a se stesso, non piegandosi a compromessi facili.
Come in ogni romanzo di Balzac il lettore attento deve ricercare il messaggio nascosto, il rifiuto dell’ipocrisia, che lo scrittore nel suo tempo riscontrava nella classe aristocratica e borghese, che si vendeva per raggiungere posizioni di potere e di guadagno con spregiudicata libertà, sacrificando la morale e l’onestà . La dignità non si vende. Un messaggio forte quello di un uomo che ha rischiato la vita per la patria e per il proprio Imperatore.
Morale troppo lontana questa dai giorni nostri. Nei tre protagonisti, il colonnello, il giurista, la moglie, sono incarnate l’onestà, la rettitudine e la cattiveria.

L’impianto drammatico, la ricchezza dei contenuti storici ha reso il romanzo adatto per una produzione cinematografica. C’è da dire che nei 1832 era stata realizzata una riduzione teatrale. La “Transazione“, ossia la seconda versione, era stata messa in scena a teatro dal fratello di un amico di Balzac, Jacques Arago e da Louis Lurine con il titolo Chabert. Il lavoro fu molto criticato dal perfido Jules Janin, ma la rivista “La Quotidienne“, la stessa rivista che fece iniziare la storia d’amore con la Contessa Hanska,fece degli elogi, considerandola , nuova e stimolante, interessante, emozionante, i personaggi ben descritti. La cosa più importante fu che uscí in modo quasi profetico con il titolo del romanzo.

Il primo film risale al 1911 il cui regista fu Henri Pouctal, con Claude Garry, Aimée Raynal e Romuald Jubé.
Il più apprezzato e forse il più conosciuto è stato quello del 1994 di Yves Angelo, con artisti ben noti a tutti, quali Gérard Depardieune a Fanny Ardant.
Quello però più riuscito è la versione del 1943 di René Le Hénaff, dove l’attore Raimu è superbo nel ruolo del Colonnello. Anche Marie Bell incarna bene la Contessa Ferraud.

Roma 23 agosto 2017